Cittadine e Cittadini antifascisti della Carnia, familiari dei Partigiani e delle vittime dell’eccidio della Valle del Bût, Sindaci di Paluzza, di Sutrio, di Cercivento, di Arta Terme, di Ravascletto, di Treppo Carnico, Prato Carnico, Ampezzo di Socchieve, Autorità,
prendo la parola in occasione del 77° anniversario della strage con l’emozione che mi deriva dalla consapevolezza del significato di questa commemorazione per le vostre Comunità. È una delle vicende costitutive della vostra Storia, ma per quello che la Carnia ha saputo insegnare al mondo nella Lotta di Liberazione dalla barbarie del fascismo, le tragiche vicende del 15, 21 e 22 luglio 1944 che oggi ricordiamo, appartengono alla Storia con la “S” maiuscola dell’Umanità intera; e sono esemplari per tutti coloro che sentono come dovere il riaffermare i valori di libertà e solidarietà. Come disse Calamandrei, nel suo famoso intervento rivolto agli studenti, sono proprio luoghi come questi – le montagne dove caddero i partigiani, le carceri dove furono imprigionati e i campi dove furono impiccati, ovvero i luoghi simbolo dove è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità a cui bisogna ritornare, perché qui è nata la nostra Costituzione, che è la legge fondante della nostra democrazia antifascista, l’unica legge che non pone limiti ai cittadini, ma va nella direzione inversa, ovvero limita il potere dell’autorità!
Ogni italiano ha un debito di riconoscenza verso questi luoghi e le sue genti, che non potrà mai essere estinto!
Provo sincera gratitudine, rispetto e ammirazione verso le vostre Comunità, che attraverso l’ANPI, vogliono condividere questa loro Storia, facendoci partecipare intensamente al senso di quelle vicende; facendo rivivere quegli esempi di eroica resistenza civile e militare su cui si abbatté la più feroce violenza; sono Comunità, le vostre, che sanno però anche rinnovare quest’eredità con gesti importanti come il conferimento della cittadinanza onoraria a Liliana Segre, che avverrà tra poco. Gesti di cui c’è tanto bisogno anche alla luce dei costanti tentativi di riscrittura della Storia, come nella recente proposta di Legge presentata al Senato che vuole equiparare le vittime delle Foibe a quelle dell’Olocausto. È in atto un revisionismo di destra quasi impercettibile, fatto di risoluzioni comunali da Monfalcone a Lecce, con i quali la Storia perde senso secondo un paradigma vittimario che cancella ogni differenza. Questi vostri gesti invece la riaffermano!
Inizierò questa orazione leggendo alcune frasi di una delle pagine più memorabili della letteratura resistenziale, che compare nella monumentale antologia di Mimmo Franzinelli, ovvero la lettera che Aulo Magrini (Arturo) scrisse alla moglie Margherita, come testamento spirituale, quando fu costretto ad entrare in clandestinità:
Sento che, pur nello strazio anche mio nel lasciarvi, sparai comprendere che ci sono delle leggi e dei doveri, come uomini e cittadini, di fronte ai quali tutto deve passare in second’ordine – interessi ed affetti, sentimenti ed impulsi.
Ho creduto e credo fermamente in una società migliore e in un migliore prossimo avvenire in questa povera umanità .
Non credo possibile, né posso in questo momento, rifuggire dalle responsabilità e dai doveri che me ne derivano.
Non è questa che la ferma e calma decisione che chiunque, nelle sue pur modeste condizioni, voglia considerarsi degno del nome di uomo, deve prendere per sé e soprattutto per i propri figli.
Ho voluto citare queste frasi in apertura, non solo perché nella loro quasi paradossalità sono esemplari di un più alto senso di responsabilità civile verso la collettività che viene prima rispetto a quella nei confronti dei propri familiari, che è sempre individuale, ma perché mi sembrano straordinariamente attuali nel loro allargare l’orizzonte di tale responsabilità civile soprattutto alle future generazioni, “soprattutto per i propri figli” scrive Magrini. Questo messaggio indica senza mezzi termini quello è drammaticamente in gioco anche oggi in questa nostra epoca minacciata dal riscaldamento globale che deriva da un’altrettanto feroce barbarie fascista: lo sfruttamento indiscriminato del pianeta al fine di accumulare ricchezze nelle mani di pochi con il conseguente aumento delle disparità tra i cittadini. Un falso sviluppo che ingiustamente allarga la distanza tra primi e ultimi; e tra questi ultimi ci sono anche quelli che non ci sono ancora perché verranno dopo. In gioco è il futuro, sono le future generazioni!
Questo è il primo e più forte insegnamento resistenziale che risuona dalla Valle dell’alto Bût! Oggi tutti parlano di future generazioni (Next Generation), credendo che sia un concetto nuovo e moderno, quando invece, come si coglie nella lettera, fu proprio il punto archimedeo che, nella coscienza dei suoi testimoni più autentici, diede senso alla Resistenza e ai tremendi sacrifici individuali che ne derivarono. Oggi quando agiamo avendo in mente le future generazioni, i nostri figli – impegnandoci per ridurre le disparità anche nei confronti di chi verrà, tutelando il pianeta – ci ricolleghiamo idealmente alla Resistenza, resistendo alle pretese di uno sciocco presente opportunistico e ipertrofico!
Questa è la forza delle vicende costitutive della Storia di un popolo, quale la lotta Partigiana. Sono esemplari su numerosi piani; rinnovandosi profeticamente; diventando metafore viaggianti nel tempo!
E proprio nel tempo presente così duramente segnato dal tremendo contagio che tanto dolore e sofferenza hanno portato ovunque, non possiamo non leggere alcuni grandi insegnamenti che la lotta di Liberazione aveva già indicato tanti anni fa. La pandemia, drammatica esperienza collettiva, che ha toccato indistintamente tutti, avrebbe dovuto farci capire che i beni che contano veramente, i beni decisivi, sono i beni pubblici e non quelli privati: la salute come la libertà, come i diritti. Non c’è salute e non c’è libertà e non ci sono diritti se questi non lo sono per tutti; se si lascia indietro qualcuno. La salute, la libertà, i diritti, o sono di tutti oppure non sono!
La tragedia dei tanti morti che ha colpito il nostro paese e soprattutto questa regione e la Carnia stessa, facendoci registrare tra le più alte percentuali di vittime al mondo, ha le sue radici in quella fragilità del sistema sanitario territoriale e di prossimità, fatto di prevenzione e del prendersi cura delle cronicità. Questa fragilità è la conseguenza della troppa enfasi data alla riduzione dei costi in sanità, e la parallela ricerca di prestazioni individuali, che ha favorito in modo scellerato un sistema privato che non è in grado di concepire la salute come bene collettivo. E amaramente constatiamo che le ultime decisioni politiche a livello regionale non sembrano ancora aver compreso questa lezione.
E proprio questa indicazione resa esplicita in modo così duro e per cui ci batteremo politicamente, soprattutto monitorando nei mesi a venire l’applicazione delle ingenti risorse del PNRR designate per la costituzione delle cosiddette “case della salute” e di prossimità, sembra uscire proprio dalle pagine del famoso studio svolto nel 1930 dall’associazione Pro Carnia che affrontò numerosi temi per il rilancio di questo territorio. Sono tutti ancora attualissimi a quasi un secolo di distanza: trasporti, economia, turismo, istruzione, e appunto, la sanità pubblica. E non a caso fu proprio Aulo Magrini a redigere quella parte del documento dal titolo Il problema igienico-sanitario in Carnia. Vi invito a rileggere quelle pagine rese mirabilmente accessibili da Anna di Qual grazie al libro (Aulo Magrini e la Carnia ed. KappaVu).
La figura di Aulo Magrini giustamente e mirabilmente illustrata giovedì scorso a Paluzza, ancora grazie all’ANPI, con lo stupendo intervento dello storico Maieron, andrebbe divulgata di più insieme alla sua straordinaria concezione della sanità pubblica che lo portò a venire chiamato “medico dei poveri” in quanto introdusse un sistema di sicurezza sanitaria finanziata attraverso l’acquisto annuale di una tessera a basso costo, che mutualisticamente permettesse di garantire le spese per le cure mediche a tutti coloro che ne partecipavano qualora ne avessero avuto bisogno. Aulo Magrini trovò ispirazione in queste sue iniziative proprio dall’adesione al Partito Comunista sin dal tempo dell’Università nei primi anni ’20. E nel parlare di Aulo voglio esprimere anch’io tutto il cordoglio per la recente scomparsa di quel suo figlio straordinario, tra i figli straordinari di Aulo Magrini, che fu Giulio, sindaco e consigliere regionale della ricostruzione del post terremoto, fulgida figura di rigore morale, di intellettuale impegnato, stimolante e curioso, di difensore della Carnia, e con essa degli ultimi di tutto il pianeta. Considero, l’averlo conosciuto di persona, come uno dei grandi privilegi che mi sono stati concessi. Ebbene proprio Giulio è l’illustrazione di chi siano e quanto possano dare le future generazioni quando i loro padri hanno lo spessore etico di Aulo. Quando pensiamo alle future generazioni pensiamo dunque al passaggio da Aulo a Giulio e a come perpetuare le loro eredità. Così forse riusciremo finalmente ad abbracciare un periodo più ampio della Storia, liberandoci da quel soffocante opportunismo del presente che azzera ogni valore e debito.
E proprio la morte di Aulo in battaglia il 16 luglio 1944, con tutti i vergognosi tentativi, peraltro confutati di screditarla, che furono operati anche in epoca recente da una logica fascista ancora non estirpata, apre la narrazione di quei tremendi eventi sui quali siamo oggi qui a ragionare.
Le vittime delle stragi del 21 e 22 luglio del 1944, di quelle quarantotto ore di barbarie, feroce violenza, terrore nella Valle del Bût sono tutte ancora vive. Sono diventate immortali come possono diventarlo solamente gli eroi, oppure i profeti di un mondo migliore, che non hanno mai avuto l’opportunità di conoscere ma solo immaginare con la forza dei loro ideali. Quei ragazzi sono i nostri figli, quelle donne sono le nostre madri e le nostre sorelle, quegli uomini i nostri padri e fratelli.
La Storia, con la “S” maiuscola, ha dimostrato che la loro morte così assolutamente ingiusta e crudele non è stata inutile però. Prove indiscutibili sono le fasi successive della Lotta Partigiana che invece di infiacchirsi, proprio grazie a questi sacrifici, portò di là a qualche mese, in queste terre a quell’apoteosi di libertà che fu la Repubblica Partigiana della Zona Libera della Carnia. Quell’esperienza maturata grazie alle capacità di uomini straordinari come Romano Marchetti, che fu Repubblica quando ancora l’Italia era regno, si erge come monumento incancellabile di civiltà per i provvedimenti legislativi che prese anticipando la nostra Costituzione. Diede per la prima volta nella storia dell’Italia il voto alle donne, curò la ripresa dell’anno scolastico con una revisione dei contenuti espressamente fascisti dei libri di testo, deliberò in materia fiscale istituendo una sola tassa progressiva sul reddito, rifondò il sistema giudiziario prevedendo l’abolizione della pena di morte, introdusse misure di solidarietà e di tutela dell’ambiente e dei beni comuni come il patrimonio boschivo e l’acqua, varò misure in difesa dei lavoratori e soprattutto misure di sanità pubblica.
Ulteriore prova del fatto che le morti della strage della Valle del Bût non furono inutili è la Liberazione stessa dal Nazi-fascismo avvenuta poco meno di un anno dopo, e soprattutto i quasi ottant’anni di pace, democrazia e libertà della Repubblica Italiana e della nuova Europa nate dalla Resistenza. Anche la nostra stessa presenza qui oggi a Paluzza, e prima a Cercivento e Sutrio dimostrano che queste morti non furono inutili. Nell’onorare le vittime di quelle stragi ed eccidi, rinnovando lo sdegno, riaffermiamo la nostra lealtà nei confronti di quelle vittime e ribadiamo il nostro impegno non solamente a difendere la Costituzione ma a far “vivere la Costituzione”, in un momento storico forse tra i più difficili dalla sua promulgazione. La domanda che dobbiamo porci può essere una sola: sappiamo essere all’altezza del loro sacrificio?
I terribili fatti di quei giorni si svolsero in un contesto di frequenti rastrellamenti e deportazioni nei campi di lavoro e sterminio nazisti. Manca una precisa descrizione del numero esatto di coloro che furono deportati, anche per quella incapacità di testimoniare l’indicibile e l’impensabile dei pochi che hanno fatto ritorno. È quella la lacuna intestimoniabile, che è stata trattata con straordinaria profondità da Giorgio Agamben nel suo “Quel che resta di Auschwitz”.
Gli archivi storici parlano inequivocabilmente di almeno 52 morti, tanti furono i civili, ragazzi e ragazze, giovani, donne, di cui una incinta, anziani, uomini. Caddero barbaramente uccisi, molti dopo atroci torture e umilianti sevizie, ad opera di bande di SS tedesche e fasciste repubblichine che vigliaccamente si erano travestite da partigiani garibaldini per ingannare gli abitanti della valle a cui poi si unirono squadroni costituiti da reparti di SS tedesche e Brigate Nere italiane.
Accolti cordialmente, come sempre venivano accolti i Partigiani, in 20 furono massacrati alla malga Pramosio, malgari, casari, pastori impegnati nell’antica pratica della monticazione con le loro famiglie: Aldo Maieron di 14 anni, Silvio Puntel di 16, Giovanni Mentil di 16, Vincenzo Matiz di 17, Carlo Mentil di 17, Lidia Maier di 30, Romeo Englaro di 33, Giobatta Zannier di 34, Olinto Del Bon di 39, Alessio Quaglia di 45, Andrea Brunetti di 50, Adele Tassotti di 55, Guerrino Vanino di 55, Giacomo Mentil di 58, Nicolò Unfer di 59, Cesare Zannier di 66. Due donne che avevano cercato di nascondersi nel bosco Massima delli Zotti di 53 e Paolina Tassotti di 45 entrambe madri di famiglia furono violentate prima di venire massacrate. Sono due esempi di quelle silenziose donne carniche che solo recentemente hanno ricevuto il meritato riconoscimento per lo straordinario ruolo svolto nella Lotta Partigiana armata e nell’altrettanto importante impegno di Resistenza civile, come portatrici di rifornimenti, di informazioni. Più a valle l’orda feroce scovò due boscaioli Oreste Pagavino di 39 anni e Benvenuto Primus di 50 in località Frate, che furono orrendamente sfigurati prima di venire sgozzati come animali. E altri tre partigiani furono uccisi più avanti a Cercivento, Mosè Straulino di 29 ani e Mario De Reggi di 46 e Enrico Nodale di 47.
Il giorno successivo da Tolmezzo si unirono ai falsi partigiani, feroci reparti che seminarono a loro volta una lunga scia di sangue, violenza, terrore, riempiendo, tanti luoghi di questa valle delle urla delle vittime torturate e del rumore delle loro barbare esecuzioni.
La prima vittima di questa seconda giornata fu Gino Miss di 23 anni, e poi una lunga scia di sangue. Al bivio del ponte furono ammazzati i giovanissimi Albino Cicutti di 19 anni, Giovanni De Reggi di 26, Rino Dorotea di 32, Gelindo Moro di 23, Enrico Selenati di 31. Molti altri cittadini furono presi ostaggio, dalle SS ormai ubriache, picchiati selvaggiamente e poi incolonnati, molti irriconoscibili per il viso tumefatto dalle percosse e assassinati uno a uno lungo la strada verso Arta Ernesto Englaro di 44, Osvaldo Del Bon di 32, Costanzo Lazzara, Giovanni Gressani, il barbiere, di 32, Adamo Pittino di 45, e altri ancora in località “Aghevive” Toni di Lesci e, mentre era al pascolo, Luigi da Rose. La coraggiosa e preziosa testimonianza del libro di Rodolfo di Centa (Rudy) “Testimone oculare” uno dei pochi sopravvissuti di quella marcia della morte, fatta pubblicare da Alfio Englaro e ulteriormente circolato grazie all’iniziativa di Luigi Cortolezzis, con il sostegno della SECAB, costituisce un documento importante per ricostruire quelle vicende mettendo in evidenza il dramma, le paure, le ansie, le speranze, insomma quello scarto tra storia e testimonianza tra fatti e verità, tra comprensione e constatazione.
Penso sia importante ripercorrere quell’incalzante e inquietante sequenza di aggressioni, violenze, assassinii e deportazioni. È un tributo alla memoria delle vittime. Tra queste vi erano certamente Partigiani combattenti, ma anche tanta gente comune, non direttamente impegnata in azioni armate, che però istintivamente si dimostrava accogliente verso chi combatteva la Lotta di Liberazione. Penso sia importante ripetere oggi i loro nomi, indipendentemente dal loro ruolo, proprio come l’associazione Libera fa ogni 21 marzo, nella Giornata della Memoria e dell’Impegno, ricordando tutte le vittime innocenti delle mafie in omaggio a quella donna minuta, Carmela, che vestita di nero e piangente disse nella prima commemorazione della strage di Capaci: «Sono la mamma di Antonino Montinaro, il caposcorta di Giovanni Falcone. Perché il nome di mio figlio non lo dicono mai?».
Ripensando a tutte queste persone accomunate nella morte, viene in mente un’altra frase di Piero Calamandrei, posta ad epigrafe sul monumento alla Resistenza a Udine in Piazza XXVI Luglio. “Quando considero questo misterioso e meraviglioso moto di popolo, questo volontario accorrere di gente umile fino a quel giorno inerme e pacifica, che in un’improvvisa illuminazione sentì che era giunto il momento di darsi alla macchia, di prendere il fucile, di ritrovarsi per combattere contro il terrore, mi vien fatto di pensare a certi inesplicabili ritmi della vita cosmica, ai segreti comandi che regolano i fenomeni collettivi.
Come le gemme degli alberi che spuntano lo stesso giorno, come le rondini di un continente che lo stesso giorno si accorgono che è giunta l’ora per mettersi in viaggio.
Era giunta l’ora di resistere: era giunta l’ora di essere uomini: di morire da uomini per vivere da uomini.”
Credo che questa frase faccia capire che cosa sia stata davvero la Resistenza, al di là delle vigliacche strumentalizzazioni di tanti episodi. Da Sindaco di Udine volli mostrare personalmente quel monumento e recitare quella frase all’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in visita a Udine, al quale il protocollo originario voleva far visitare solamente la malga di Porzus. In questa frase invece è contenuto anche il riscatto della Malga Pramosio. La Resistenza fu infatti un movimento collettivo, spontaneo di genti meravigliose. E la metafora di queste genti, nel monumento di Gino Valle, è l’acqua, che scende dall’alto lungo la Forra verso il bacino della pace. Quel monumento è la cifra della lotta Partigiana in Carnia.
Di fronte alle stragi, come quelli della valle del Bût, la domanda da porsi è: perché tanta diabolica barbarie? Sempre Giorgio Agamben, relativamente alla ferocia nazista, scrive: se il problema delle circostanze storiche, tecniche, burocratiche, giuridiche può considerarsi chiarito, ben diversa è la situazione per quanto concerne il significato etico e politico della violenza o anche soltanto la comprensione umana di ciò che è avvenuto – cioè, in ultima analisi, la sua attualità.
Agamben considera in verità risolto l’aspetto giuridico. Rispetto a queste stragi, invece, l’avvento della guerra fredda ha portato a interrompere le indagini nei confronti dei crimini nazisti e fascisti, e l’aspetto giuridico non può certo dirsi compiuto. Manca spesso in Italia quanto in altri contesti, persino per le atrocità dei campi di sterminio è invece avvenuto: la ricerca, il processo e la condanna dei colpevoli. Bisognerebbe riaprire o svolgere le attività investigative al riguardo: lo dobbiamo alle vittime ma lo dobbiamo anche ai nostri figli ai quali insegniamo la Storia. Questa assenza ha certamente pesato sulla presa di coscienza, anche storiografica, di tanti eventi come quello delle stragi della Valle del Bût.
Come ricorda Santo Peli nel suo libro “La Resistenza in Italia”, per oltre 50 anni gli storici si sono interrogati, con molte difficoltà, su quali furono le ragioni dello stillicidio di episodi di violenza, eccidi, stragi, rappresaglie, rastrellamenti, apparentemente immotivati nella loro agghiacciante ferocia, che caratterizzò la presenza delle Forze Armate tedesche e repubblichine in Italia dal 1943 al 1945 e che costò oltre 10,000 vittime tra i civili. Sono state prese in considerazione tante ragioni per spiegare questo fenomeno diabolico: la difficile convivenza dopo l’Armistizio, la decisione tedesca di difendere palmo a palmo e in modo capillare il territorio italiano, il pregiudizio razziale nei confronti degli italiani, l’emergere graduale di un’attività partigiana fino al suo assestamento in quello che il generale Kesserling definì un vero e proprio fronte di combattimento. Ma la particolare durezza con cui fu trattata la popolazione italiana e lo spirito vendicativo che ispirò la condotta dei tedeschi e dei repubblichini sfugge in verità a tutte queste spiegazioni. La storiografia oggi sembra convergere, verso la conclusione che i tantissimi episodi non si sarebbero tradotti in violenza diffusa se questa non fosse stata in qualche modo legittimata da misure autenticamente repressive ed espressamente ostili verso la popolazione. La verità oggi sempre più chiara è che nazisti e i repubblichini praticarono una vera e propria “guerra ai civili”, inaugurata nel XX secolo proprio dall’esercito fascista nella Guerra di Spagna, per molti aspetti molto vicina alla “guerra di sterminio” che fu condotta dai nazisti tedeschi all’Est. Varie sono le fasi nelle quali si possono classificare queste azioni nazifasciste contro i civili, ma soprattutto in quella che è la terza fase della tipologia delle stragi che va dal giugno all’ottobre del 1944, quella della valle del Bût appunto, si assiste ad una vera e propria escalation della violenza nei confronti della popolazione italiana. Si passa infatti da una repressione di fatti occasionali e isolati ad una concreta offensiva pianificata sul territorio che comporta ormai il superamento di ogni distinzione nella repressione antipartigiana tra civili e resistenti. L’avversario è la popolazione. In luogo delle iniziative antipartigiane, diventano pratiche sempre più diffuse rappresaglie sui civili, l’incendio di villaggi, l’arresto di massa, la deportazione. Il 17 giugno del 1944 il feldmaresciallo Kesserling emana il suo ordine: “La lotta contro le bande deve essere condotta perciò con tutti i mezzi a disposizione e con la massima asprezza. Io coprirò ogni comandante che nella scelta ed asprezza del mezzo vada oltre la misura a noi di solito riservata”. Non quindi casualità, inevitabilità o diabolica perfidia germanica sono le cause di tanta violenza, bensì sistematica politica di saccheggio, uccisioni e terrorismo, pianificata per punire e terrorizzare la popolazione civile e privare così la Resistenza armata del humus in cui svilupparsi e rafforzarsi. I massacri dei civili non vanno infatti mai letti come rappresaglie in corrispondenza di fatti precisi, ma come azioni di una guerra preventiva condotta contri i civili.
A chi ancora si interroga sull’efficacia o sul significato della Lotta Partigiana queste considerazioni dovrebbero dare risposte chiare. Anche se certamente l’azione che portò alla morte di quel puro eroe che fu Aulo Magrini, insieme a Vito Riolino ed Ermes Solari, il 15 luglio del 1944 presso il ponte di Noiaris ad Arta inferse un colpo alla forze naziste in Carnia, non è con una logica di rappresaglia per questo atto che si può interpretare la ferocia dei massacri della settimana successiva nella Valle del Bût. Nella strategia delle truppe naziste e fasciste: il barbiere, la casara, il boscaiolo, il ragazzo, la donna incinta, anche loro sono un nemico.
Quale lezione di Storia questa! Nel populismo di destra, il popolo viene dapprima strumentalizzato e utilizzato alla stregua di un alleato militare da aizzare, e quando questo non è più utile, esso stesso diventa un nemico, e, come ci dimostrano drammaticamente questi fatti drammatici nella Valle del Bût, un nemico per trattare il quale non ci sono più regole da rispettare. Il mostro del populismo che a Trieste il 17/11/1938 inneggiava alla promulgazione delle leggi razziali divora se stesso!
Quindi rifiutiamo la banale lettura Partigiani–rappresaglie. I fatti della Valle del Bût dimostrano inequivocabilmente che la guerra nazifascista fu una guerra ai civili, fu guerra totale e fu guerra di sterminio. Guerra nella quale gli stessi militari infransero le regole del diritto internazionale di guerra!
Per comprendere cosa ha significato la Resistenza in Carnia ed in Friuli bisogna anche tenere presente che dal 10 settembre del 1943, a seguito dell’armistizio di Cassibile, queste terre diventarono in tutto e per tutto OZAK (Operazionszone Adriatishes Küstenland). Vennero cioè sottratte alla sovranità italiana e il Gauleiter della Carinzia Friedrich Rainer assunse poteri assoluti su tutti i campi della vita politica, sociale, economica e nell’amministrazione della “giustizia”. La Repubblica Partigiana della Zona Libera della Carnia “di fatto fu strappata al territorio tedesco”, come spesso ricordava uno di quei protagonisti, Giovanni Spangaro. E ai vertici delle SS a Trieste giunsero figure come, Odilo Globočnik e Franz Stangl, che parteciparono attivamente all’operazione T4 eutanasia e alla costruzione e gestione dei campi di sterminio di Sobibor e Treblinka, che costarono la vita a oltre 1,500,000 di persone; e furono trasferite appunto all’OZAK quando quei campi vennero chiusi per l’avanzata dell’armata Rossa.
Come ho sempre fatto in tutte le orazioni che ho avuto il privilegio di svolgere per commemorare i Partigiani non posso non citare alcuni documenti di altissima umanità e civiltà che sono le lettere dei condannati a Morte della Resistenza. Questi giovanissimi con le loro poche parole dimostrano di aver colto il senso della Storia prima e meglio degli altri, e ci consegnano delle lezioni immortali di impegno civile:
“Carissima mamma, …la mia coscienza è pulita, non mi hanno accusato di altro che di aver indossato la divisa dei partigiani. … e pensa con orgoglio a me perché ho fatto il mio dovere e faccio l’ultimo sacrificio per la Patria, per i santi ideali della verità, della libertà, e della civiltà.”
Cos’altro ci sarebbe da dire? Come si può esprimere qualcosa di più alto, di più forte, di più intenso, di più commovente, di più perfetto, di quanto scrive alla sua mamma Luciano Pradolin (Goffredo) di anni 23 di Tramonti, poche ore prima di essere fucilato alle ore 6 dell’11 febbraio 1945 davanti al cimitero di Udine. In un’altra lettera indirizzata alla sorella, lo studente universitario Pradolin cita la poesia di Leopardi “Nelle nozze della sorella Paolina” e in quella lettera, a poche ore dalla morte, ne offre un’interpretazione nuova di straordinario impatto, che la trasfigura in un’attualità eterna. Pietro Benedetti in una delle più intense tra queste lettere ci pone con semplicità la scelta etica fondamentale “ho voluto essere attore e non spettatore”, non volle cioè essere indifferente. L’indifferenza è infatti complicità. Quanto sarebbe stato più comodo aspettare e non agire! ma come dichiara Alfio Martini in un’altra lettera “un bel momento bisogna passare dal pensiero all’azione, le parole non bastano più occorrono i fatti”. Come risuona qui la legge di Solone nell’antica Grecia, che puniva con l’atimia, la perdita dei diritti civili, chi nella statis, nella guerra civile, non avesse preso le armi per una delle due parti!
Perché combattevano i partigiani? Contro il Fascismo, la falsa Patria, regime tremendo e assassino, che aveva oppresso l’Italia per oltre vent’anni privandola della democrazia, dei diritti civili, sopprimendo la libertà di stampa, di riunione, di espressione, privando di ogni ruolo il Parlamento, i partiti e i sindacati, che aveva varato l’abominio delle leggi razziali, condotto l’Italia ad una sciagurata guerra di aggressione a fianco del nazismo contro Francia e Gran Bretagna e poi dal 22 giugno 1941 all’URSS (Mussolini dichiara guerra mentre era in vacanza a Riccione e l’ambasciatore russo in Italia la riceve mentre stava facendo il bagno a Fregene), avviando il tragico fenomeno della deportazione nei campi di sterminio e concentramento di giovani, anziani, donne, bambini. Barbarie, ferocia, arroganza, stupidità, inciviltà, che possono prendere il potere così facilmente ma sono poi così difficili da estirpare!
I Partigiani furono volontari che seppero scegliere tra l’essere spettatori passivi di una tragedia oppure coraggiosi attori, protagonisti di un riscatto. La Lotta Partigiana di riscatto civile fu combattuta in Friuli e in Carnia da oltre 20.000 tra uomini e donne, con il sacrificio di oltre 3000 morti, 1.600 feriti e 7000 deportati, e 12.000 prigionieri politici, uomini e donne rinchiusi nel carcere di via Spalato a Udine, luogo di tortura e di morte. Per quell’epopea Udine fu insignita della Medaglia d’Oro a nome di tutto il Friuli e della Carnia.
I Partigiani combattevano per una società migliore. Per un’Europa diversa da quella che voleva il Terzo Reich basata sul razzismo sull’antisemitismo, sul tentativo di distruggere le identità nazionali e culturali dei paesi assoggettati, sugli stermini di massa degli ebrei, dei “fuori posto” come i Rom o gli omossessuali, combattevano per una società dove l’interesse supremo è quello collettivo e non quello individuale basata sulla responsabilità verso gli altri, verso i più deboli, verso le generazioni future, appunto. Anche l’idea di Europa, unita nella diversità, che ci ha dato 77 anni di pace è nata dalla lotta di Liberazione.
I valori della Resistenza sono sempre attuali, anzi lasciatemelo dire sempre più attuali, sono la stella polare nell’affrontare il futuro più prossimo. Le cui sfide delineo brevemente iniziando dal ruolo che la Carnia può svolgere in quanto luogo che nella sua storia è sempre stato animato da uno slancio di libertà e che quindi non a caso fu luogo primario di Resistenza.
La Carnia, come fu il Friuli di Ippolito Nievo, è oggi più che mai compendio dell’Universo, emblematica nelle due principali sfide che la nostra società deve affrontare che, come ho già detto, sono le questioni ambientali e le disparità socio-economiche. La Carnia è infatti depositaria di straordinari beni ambientali, ma è anche territorio emarginato, a volte abbandonato, rispetto a luoghi ingiustamente più avvantaggiati. Colpiscono i dati agroambientali di poco più di un secolo fa. La Carnia disponeva allora di percentuali di terreni agricoli, o comunque gestiti, estremamente più elevate di quelle attuali, ma al tempo stesso la percentuale di suolo urbanizzato, antropicamente consumato, era ordini di grandezza più piccola di quella attuale! La sfida del futuro va vinta proprio cogliendo il valore di cui questi luoghi sono portatori, tutelandoli dai saccheggi delle multinazionali dell’energia rinnovabile, del turismo sfrenato, o dell’industria inappropriata, ma assicurando al tempo stesso servizi sanitari diffusi e di prossimità e reti materiali e telematiche. Solamente risolvendo qui queste apparenti contraddizioni, si può concepire un modello nuovo per il pianeta, che finalmente metta in pratica il messaggio dell’ambientalista Alexander Langer degli anni ’80, quel lentius suavius, profiundius, in opposizione allo scellerato citius altius fortius dell’ipertrofico presente. È nostro dovere ma anche nostra unica speranza. Non è più sostenibile infatti il modello di sviluppo pre-pandemia. Gli impatti drammatici e sempre più frequenti dei mutamenti climatici (pensiamo al medicano Vaia, ovvero l’uragano mediterraneo, o il ciclone che si è abbattuto in questi giorni un migliaio di chilometri più a nord) devono farci aprire gli occhi sulle conseguenze a cui andiamo incontro e farci comprendere la lezione della pandemia sintetizzata dallo scrittore islandese Magnason vincitore dell’ultimo Premio Terzani, con la sua crasi Apausalypse Now, Apausalisse incrocio tra Apocalisse, ovvero rivelazione, e pausa. Questi luoghi devono ispirarsi, con orgoglio, al passato che permise loro di anticipare momenti di straordinaria innovazione in un contesto di economia circolare ante-litteram. La Carnia deve diventare il banco di prova per il pianeta del futuro. Si devono rendere nuovamente sostenibili pratiche rispettose come quella della monticazione, quelle che esercitavano le povere vittime di Malga Pramosio, si deve difendere la ricaduta sul territorio degli utili maturati dalle multinazionali dalle grandi derivazioni idroelettriche, impedendo loro di giocare come sta avvenendo presso gli invasi di Somplago e Verzegnis sulla riduzione dei costi del personale, si devono tutelare le medie derivazioni come quelle della cooperative dell’Alto Bût, si deve impedire di incidere sul flusso vitale dei torrenti per tutelare la straordinaria biodiversità della Carnia, si deve valorizzare il tursimo lento, ma al tempo stesso si deve evitare che i figli di questi luoghi siano costretti a espatriare perché impossibilitati a svolgere attività ad alto contenuto di conoscenza per la mancanza delle infrastrutture anche telematiche fondamentali che invece ormai sono banalmente disponibili nelle aree giudicate di interesse di mercato. La Carnia deve diventare modello proponendo se stessa come unico mix tecnologico-ambientale sostenibile per il futuro.
In questa stagione ricchissima di risorse finanziarie, a seguito degli interventi a favore della ripresa dopo la devastazione della pandemia, dal PNRR al Next Generation EU al ReactEU, vanno dunque pretesi investimenti volti ad azzerare le disparità socioeconomiche, soprattutto nei territori fin ad oggi svantaggiati come la Carnia. Molte sono le famiglie che in questi ultimi anni hanno avuto rapide cadute nel proprio tenore di vita a causa della grave crisi economica e molte saranno a rischio se non viene impedita la potenziale corsa ai licenziamenti dettata dalla logica dell’infame riduzione del costo del lavoro nelle sue forme degenerate della delocalizzazione e della sudditanza alle multinazionali e ai hedge funds. Da decenni le crisi sono il frutto di un processo scellerato di deregolamentazione condotta in nome di un libero mercato soggetto solo alle regole spietate del più forte; ad un’anomala iper-finanziarizzazione dove né le competenze, né le risorse hanno più valore ma è solo il denaro che crea denaro. Questo liberismo che è l’antitesi della libertà, che invece è rispettosa dei beni comuni, si alimenta proprio dell’eliminazione delle regole, ovvero di regole infrante e azzerate. L’Unione Europea deve avere la forza di combattere le dannose incrostazioni dei nazionalismi ancora troppo presenti che vengono abilmente sfruttati dai fondi di investimento. Lo ripeto, lottare per un’Europa dei cittadini è ribadire l’attualità dei valori della Resistenza.
E proprio qui a Paluzza, non posso non menzionare una vicenda recente, profondamente umana, ma per tanti versi emblematica di cosa significhi l’impegno per far vivere la Costituzione, una vicenda di resistenza contemporanea, quindi. Ha coinvolto persone che portano gli stessi cognomi di alcune vittime di queste stragi. Beppino Englaro è un nuovo eroe civile di queste terre. Ha saputo trasformare il più tremendo dei drammi familiari in una missione di impegno civile, dimostrando con la sua azione non solamente un amore paterno nei confronti della propria figlia ma anche un amore nei confronti di tutti i cittadini italiani. Ha creduto fino in fondo nel fatto che la Repubblica Italiana fosse una nazione civile. Non ha mai voluto utilizzare scorciatoie e ha voluto dimostrare a beneficio di tutti i cittadini italiani, la fede nella Giustizia e nella Costituzione che la garantisce. Siamo orgogliosi di essere stati al suo fianco nella fase finale di quella battaglia civile, combattuta a Udine, contro un governo che fino in ultimo e con ogni mezzo non accettava di garantire il diritto alla giustizia ad un padre e a una figlia. Avevano a loro favore sentenze di ogni grado di giudizio che riconoscevano loro il diritto sancito dal secondo capoverso l’art. 32 della Costituzione: il rifiutare le cure come scelta a fronte dei dilemmi bioetici che le nuove tecnologie di rianimazione pongono quando non vanno a buon fine. A Udine nel febbraio del 2009, nella casa di riposo comunale, non siamo rimasti spettatori, ma abbiamo fatto il nostro dovere garantendo a un padre e una figlia i loro diritti.
Oggi quel percorso ha assicurato al nostro paese la legge sul consenso informato e sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, la Legge 219/2017. Purtroppo i suoi decreti attuativi non sono ancora stati resi esecutivi e quel diritto non è ancora del tutto esigibile. Altri temi bioetici sono incalzanti con il progredire della scienza. In questi mesi c’è la raccolta delle firme per il referendum sulla depenalizzazione di chi assiste alla morte volontaria, la firma è un appuntamento di civiltà anche questo, per chi crede nella Resistenza.
L’eredità della Resistenza ci impone oggi di essere al fianco di ogni minoranza, perché siamo tutti minoranze, di qualche minoranza, e come si è detto i diritti sono di tutti o non sono. Pertanto dobbiamo batterci per riconoscere e far riconoscere la dignità delle persone LGBTQ+ e in primo luogo l’identità di genere e condannare e punire la violenza materiale e immateriale dettata dall’omotransfobia. Dobbiamo impedire, come sta avvenendo da più parti, e in primo luogo in Consiglio Regionale, che non sia possibile nemmeno nominare questi crimini. Non dobbiamo dimenticare che fino agli anni ’90 l’orientamento sessuale e identità di genere, diverse da quelle della maggioranza, erano considerata una malattia mentale, e che quei cittadini, in piena violazione dell’art. 3 della Costituzione, hanno subito nei secoli sopraffazioni e discriminazioni, e quindi sofferenze, indicibili.
Far vivere la Resistenza vuol dire anche condannare senza se e senza ma i tremendi fatti avvenuti nelle carceri di Santa Maria Capua Vetere e punire i colpevoli; e pretendere la verità su quanto è avvenuto vent’anni fa in occasione del G8 alla caserma Bolzaneto e alla scuola Diaz. Queste vicende ci devono aprire gli occhi su quanto sia facile, in questo paese, scivolare nello stato di eccezione e quindi nella sospensione unilaterale dei diritti nei confronti del più debole.
E Resistenza vuol dire anche pensare ai migranti in termini diversi da quelli che sono stati usati finora. Loro, che minoranza non sono, ma sono vittime di guerre, dei mutamenti climatici e del colonialismo che ancora oggi espropria loro dei loro patrimoni ambientali, sono la maggioranza nel pianeta. Dobbiamo opporci alla pratica dei respingimenti alla frontiera o in mare che, violando i diritti umani innescano un effetto domino di morte. Opporci a leggi discriminatorie e razziste che escludono fasce di cittadini che non hanno sufficiente anzianità di residenza e a propagande che cercano di scaricare i problemi individuando capri espiatori come gli immigrati e gli stranieri o i diversi. Il tema dell’immigrazione è certamente difficile, ma in un paese che ha così bisogno di future generazioni come l’Italia, avere ancora una legge che non ammette forme regolari di immigrazione come la Bossi-Fini o come la Legge 94/2009 Maroni, che viola il diritto di nascita generando potenzialmente bambini fantasma non denunciati per paura da genitori irregolari, è un’aperta violazione della Costituzione nata dalla Resistenza.
Concludo esprimendo forti parole di elogio per l’ANPI: per il suo impegno nel raccogliere e conservare i documenti storici, nel far rivivere la memoria curando queste commemorazioni. Sono fondamentali per conservare il senso di un impegno civile attivo e coraggioso, quello dal quale è nata la nostra Repubblica e la sua Costituzione e per la battaglia finale che è il diritto alla memoria della Resistenza. Assistiamo invece sempre più spesso a tentativi ufficiali di appiattimento delle differenze tra Partigiani e Fascisti di Salò, come recentemente al comune di Gorizia che, capitale europea della cultura nel 2025, nega il patrocinio al Pride ma riceve gli eredi della X Mas o all’enfatizzazione di episodi certamente condannabili ma marginali, e addirittura ad onoreficenze conferite alla memoria di fascisti nella Giornata del Ricordo.
Non si vuol negare la pietà umana a nessuna vittima. Non si vuol rinunciare a condannare tutte le ingiustizie. Ma non dobbiamo confondere la memoria, il pensiero, gli ideali, il coraggio, la fede di quei giovani che seppero essere Partigiani, che seppero scegliere tra l’essere attori, sacrificando la loro vita e quelli che cercarono di combatterli mettendosi al servizio dei nazifascisti. La nostra riconoscenza e celebrazione devono andare solamente ai Partigiani. Quale modello vogliamo dare ai nostri figli? Ferma deve essere la distinzione tra chi si è battuto per la libertà e chi invece per la sopraffazione, tra chi ha creduto in un mondo migliore dove esprimere liberamente l’infinta ricchezza della natura umana e chi invece ha sostenuto l’omologazione e l’appiattimento fascista. Credo che la vera lezione della Resistenza, quella sempre attuale, sia che bisogna dividere, bisogna distinguere tra il bene e il male, tra i valori e i delitti, bisogna scegliere da che parte stare. Questa è quella degli ultimi, che deve comprendere necessariamente anche quelli che non sono ancora arrivati, ovvero le generazioni future, i nostri figli di cui parlava Aulo Magrini. Altrimenti verrà meno la nostra stessa dignità di uomini, che proprio il ricordo dei Partigiani e della gente comune che li ha sostenuti, come avvenne nella valle del Bût, ci hanno insegnato con il loro sacrificio.
Vivano nella nostra memoria le vittime delle stragi del 21 e 22 luglio 1944 nella valle dell’alto Bût.
Viva la Repubblica Italiana e la sua Costituzione e Viva la Resistenza che le ha generate!
Immagine a cura di Annarita De Conti
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