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Evviva il 25 aprile!

Domani, 25 aprile, deve essere in primo luogo una festa: la festa della Liberazione dal Fascismo e della riconquista delle libertà democratiche da parte del popolo, che ha saputo sollevarsi unito contro la barbarie nazifascista.

Deve essere una festa nel nome dell’inclusione e della condivisione dei valori antifascisti. Buon 25 aprile a tutti! Passatelo con le vostre famiglie nel ricordo riconoscente di chi ha dato la vita per la nostra libertà.

Per questo motivo condanno il fatto che ancora una volta i centri commerciali rimarranno aperti impedendo a tanti lavoratori di potersi unire nella festa, promuovendo i disvalori del consumismo miope.

Per questo esprimo solidarietà all’ANPI di Trieste e al suo presidente Vallon, che ancora una volta non possono parlare in quest’occasione così significativa, pur essendo i più legittimi rappresentanti dell’eredità partigiana e la principale associazione nazionale di “partigiani dei partigiani”.

L’unità e l’inclusione sono i valori portanti della democrazia, chi non dà la parola nega i valori stessi della Resistenza.

In ricordo di Elvio Ruffino

Cittadine e cittadini antifascisti,

Elvio Ruffino ci ha lasciati… e ci sentiamo tutti più soli.

Ai figli Luca e Matteo, alla moglie Dania, alla sorella Silvana vanno le nostre condoglianze più sincere, il nostro affetto, la nostra vicinanza, ma sin da quando si è sparsa la terribile notizia alcuni giorni fa, abbiamo sentito il bisogno di scambiarci tutti, reciprocamente, le condoglianze, perché Elvio oltre che dei suoi familiari, lo sentivamo anche un po’ di tutti noi.

Ringrazio la famiglia di Elvio per avermi dato il privilegio di condividere oggi in questo luogo così ricco di significato, la memoria e gli insegnamenti di questo grande uomo. Sono certo che altri avrebbero voluto e certamente potuto farlo meglio di me. E ringrazio tutti coloro che hanno voluto condividere un ricordo di Elvio con me, perché oggi me ne rendessi interprete. Spero di esserne all’altezza.

Inizierò ponendo una domanda: come mai proprio Elvio Ruffino, così schivo nel cercare riconoscimenti o allori personali, così generoso e pronto a mettersi a disposizione nel modo più semplice, anche in quelle fasi difficili della vita quando finisce un’esperienza di vertice, perché proprio Elvio che era l’antitesi di questa nostra sciagurata stagione politica devastata dai personalismi, e dai protagonismi , come mai proprio Elvio era tra noi la persona datata del carisma più forte, della maggiore autorevolezza, colui che con un sottointeso, con un non-detto, con uno sguardo, sapeva dare significato e indirizzo a ciascuno di noi?

La risposta la sappiamo, anche se non l’abbiamo mai dichiarata. Elvio Ruffino era una vera guida politica proprio perché non cercava di esserlo, semplicemente lo era, perché ogni sua azione era autenticamente politica, frutto di ragionamento politico. Elvio agiva con un rigore assoluto, sempre accompagnato da un pizzico di ironia, nell’interesse di quello spirito collettivo, di quel “noi” che si riconosce in un’idea, in un’ideale.

La forza dei suoi ideali, che affondavano le radici nella Resistenza era di acciaio e con il passare del tempo erano diventati ancora più inossidabili. Valori antifascisti di libertà, di rispetto, di solidarietà, di tolleranza, di inclusione e con essi la condanna e il rifiuto di qualsiasi discriminazione, disparità, disuguaglianza. La sua vita è stata dedicata a vivere e ad attuare politicamente l’eredità civile della Resistenza. Ed Elvio Ruffino sapeva bene che questi valori potevano consolidarsi solamente su una collettività, sul popolo.

“Un politico si misura dalla sua coerenza” ribadì più volte. Con ciò non intendeva certo quanto superficialmente alcuni hanno detto di lui in questi giorni, che fosse uomo legato ad un passato che non c’è più. La coerenza di cui parlava era onestà intellettuale quella di chi ha posti a fondamento della propria vita i valori della sinistra, i valori democratici, i valori di lealtà verso la propria comunità. Anzi, il suo concetto di coerenza si esplicitava proprio nella capacità di leggere gli avvenimenti, di cogliere i cambiamenti del presente alla strenua ricerca del senso delle cose. Elvio non ha mai smesso di interrogarsi fino in fondo su ciò che stava accadendo, e su come agire politicamente perché i valori della Resistenza e della Costituzione si potessero concretare davvero.

Non uomo chiuso, uomo del passato, ma uomo aperto, del presente, che guarda lontano, fu Elvio Ruffino. Uomo sempre calato nel presente di cui essere attento osservatore per poi essere autentico attore. Mai passivo, mai indifferente, anche alle vicende più piccole di chi gli stava intorno. Mi hanno avvicinato in molti oggi per ricordarmi tanti episodi di generosità di Elvio e della sua famiglia. Nelle cose grandi quali l’affidamento per numerosi anni di giovani ragazzi che poi fecero studiare, come in quelle più piccole quali convincere qualcuno ad adottare un randagio. Elvio era sempre impegnato nel volontariato e in particolare con gli Amici della Terra.

Ricordo le sue ultime azioni politiche di ampio respiro, di cui ci ha fatto dono, quasi fossero i suoi testamenti spirituali. Probabilmente già malato si adoperò per due libri: il diario di Mario Lizzero, un suo maestro, che disse “è meglio sbagliare insieme che avere ragione da soli” e Civiltà e Barbarie, dove pose a confronto i più alti contributi all’affermazione della dignità umana e del progresso civile espressi dal secolo breve alle più atroci pagine della barbarie fascista e nazista. Così scrive Elvio riferendosi alla Resistenza “si sentì il bisogno non solo di armarsi per resistere e vincere, ma di elaborare una piattaforma civile e politica che contenesse un’idea diversa di organizzazione del mondo, della convivenza fra i popoli, della tutela dei diritti dei cittadini e di promozione della dignità umana. La seconda guerra mondiale fu una grande lotta di liberazione”.

Era irraggiungibile la naturalezza con la quale Elvio Ruffino sapeva comunicare i suoi ideali a tutti. Parlava con la stessa semplicità e chiarezza, ma anche con drammatica efficacia, sia più giovani nelle scuole, come ai politici più esperti. Ricordo alcuni suoi interventi al monumento ai Partigiani a Cussignacco alla fine della recitazione che i bambini avevano preparato per il 25 aprile. Faceva loro capire il senso della libertà di cui oggi possono godere proprio attraverso la gioia di poterla condividere insieme. Lo ricordo geniale nella sua capacità di trovare le modalità più dirette per stigmatizzare la degenerazione della nostra società, come in quella ricorrenza presso le mura esterne del Cimitero di Udine quando Elvio espresse tutto la sua indignata condanna per l’offesa al tricolore del quale uno xenofobo si era cinto dopo aver compiuto il suo crimine razzista, e che le forze dell’ordine non gli avevano immediatamente tolto lasciando che tutti i media lo ritraessero con la bandiera, creando così un nesso identità di patria-razzismo. Elvio aveva immediatamente smontato l’inganno, e ci aveva fatto immediatamente riconoscere il rischio di quelle immagini. In quelle poche parole, non certo retoriche ma di straordinaria efficacia, ci aveva fatto capire i gravi pericoli a cui sfuggire. Lui uomo certamente non esperto di nuovi media ma consapevole dei nuovi meccanismi della manipolazione e della propaganda occulta.

E voglio, infine, ricordare quell’altro grande lascito collettivo che è stata l’organizzazione della prima Festa della Costituzione lo scorso 2 giugno.

Devo moltissimo del mio impegno politico antifascista all’On. Elvio Ruffino, come penso gliene dobbiamo tutti noi. Elvio aveva la capacità di comprenderci tutti nella nostra individualità e peculiarità, con eccezionale altruismo e sensibilità. Anche se sapeva essere duro, non lo faceva mai con violenza, quella durezza era solamente l’espressione della forza del suo convincimento. Un suo bonario commento poi aveva, invece, per la sua autorevolezza un valore di incoraggiamento ben più grande di qualsiasi successo, perché era sempre uno sprone per continuare ad agire. Ci duole molto sapere che non potremo più ascoltarlo.

Elvio Ruffino è stato un uomo che ha saputo farsi guida quando percepiva che il popolo ne aveva bisogno perché capiva ciò di cui aveva bisogno. Come nel 2008, all’epoca del liberismo imperante, quando ideò la Festa della Liberazione, il pomeriggio del 25 aprile dopo la manifestazione, che oggi è diventata una tradizione determinante per il popolo antifascista di Udine. Momento autentico di conviviale e creativa celebrazione di gioia per la Liberazione. Ogni anno cresce di più nelle adesioni, nelle iniziative, perché risponde ad un bisogno di impegno. Anche qui il rigore degli ideali, la consapevolezza dell’alto debito verso tutti i caduti e gli eroi della Resistenza erano da lui coniugati alla gioia di poterli vivere insieme con le nostre famiglie, allargate.

Come Italo Calvino, Elvio sapeva coniugare la fermezza della coerenza alla leggerezza. Forse l’una non può esserci infatti senza l’altra. Al citius altius fortius fascista sapeva opporre l’antifascista lentius, profundius, suavius del popolo, che però sa riscuotersi e risollevarsi e lottare per la propria Liberazione. Ed Elvio ha lottato tutta la Sua vita per il progresso dei popoli e del popolo, per la loro emancipazione.

DI Elvio si potrebbe parlare molto a lungo: del suo impegno da parlamentare, di come raccolse il testimone da Arnaldo Baraccetti e Silvana Schiavi Facchin, dal segno che lasciò come Presidente del consiglio Comunale di Udine, di Presidente Regionale dell’ANPI. Furono ruoli che interpretò in modo perfetto, esemplare.  Sempre senza arrogante pesantezza, ma con intelligente e delicata autorevolezza perché nel più profondo era convinto che la forza penetrante della verità è maggiore di qualunque imposizione drastica e che la verità alla lunga non può non venir riconosciuta.

Ricordo un incontro a Gattatico all’Istituto Cervi insieme a Elvio e durante il viaggio di ritorno a Udine la condivisione e la gioia dell’impegno politico e antifascista. Elvio fu capace di cogliere da quel luogo di tragedia e del più alto sacrificio, un messaggio, uno slancio straordinariamente positivo, quasi ottimistico. Era un po’ come se si fosse portato via anche un pezzetto del “mappamondo” dei fratelli Cervi, quel grande oggetto di conoscenza che i fratelli scelsero di acquistare insieme al loro primo trattore per soddisfare la loro curiosità del mondo, quella voglia di progresso gioioso che accompagna la marcia collettiva verso un futuro migliore per l’umanità. Ragionammo anche a lungo sulle scelte difficili che di lì a poco ciascuno di noi avrebbe dovuto fare, con coraggio e coerenza, senza seguire onde o maree, sempre pensando con la propria testa, guardando lontano.

Dobbiamo tutti essere orgogliosi che Elvio Ruffino sia stato il nostro maestro di antifascismo. Autentico interprete dei valori della Resistenza che pur non aveva vissuto direttamente. Fu partigiano dei partigiani, come ieri, a Saciletto di Ruda, la Presidente dell’ANPI, Carla Nespolo, ha definito l’antifascismo di chi non è stato partigiano. Ruolo ancora più difficile oggi che nel passato, in questo tempo così stupidamente superficiale, così spregevolmente incapace di costruire, ma solamente di sfasciare decenni di impegno politico collettivo e di civiltà.

Voglio concludere questa commemorazione assolutamente inadeguata di una personalità così attenta agli altri, così generosa e altruista, ricordando quanto Elvio disse in occasione dell’ultima volta nella quale prese la parola alla cerimonia presso le carceri di Udine per onorare i 29 partigiani trucidati nell’aprile del 1945. Condivise con noi tutti una vicenda, anche personale, che manifestò la sua sconfinata umanità, ma che ci fece anche intravedere il punto di appoggio di quell’alto senso di coerente riflessione politica che informò tutta la sua vita. Condivise infatti un ricordo del padre ovvero l’emozione dolorosa e la fermezza eroica della decisione presa dalla segreteria politica del Partito Comunista di Udine, alla quale apparteneva suo padre, in quell’aprile del 1945 quando comunicò in carcere ai comandanti “Tribuno” Mario Modotti e “Guerra” Mario Foschiani, condannati a morte, che non dovevano chiedere la grazia. Così riporta infatti la lettera che egli commentò:

“Comprendiamo che è duro morire perché ognuno di noi ama la vita. Comprendiamo che non è facile morire nella tortura morale a cui sottopone il barbaro nazismo e i suoi sgherri schifosi. Comprendiamo tutto questo ma vi diciamo: incoraggiate i deboli, insegnate loro come si deve morire. Un compagno che muore da eroe non è mai perduto per la grande causa, un compagno che crolla di fronte alla morte, muore due volte. A dei compagni che da venti giorni attendono il plotone di esecuzione è duro dire queste parole. È duro ma vi devono aiutare ad essere forti. Dite ai compagni di non fare domanda di grazia. Voi siete dei patrioti, siete dei soldati. Esigete un trattamento da soldati fatti prigionieri. Noi non disperiamo ancora di potervi salvare. Ma non dovete chiedere nessuna grazia.”

Elvio condivise con noi tutti, ammutoliti, il sentimento che serpeggiò in quella riunione della segreteria politica, che lui aveva appreso dal racconto del padre. “Allora quella era l’etica, ci disse Elvio, quella era la forza degli ideali, quello era il modo di vivere la Lotta di Liberazione, come lotta di combattenti per la libertà dei popoli, per la democrazia: l’individualità di ognuno di fronte a quel compito non scompariva come superficialmente poteva sembrare, ma anzi ne veniva esaltata.” E i prigionieri si rassegnarono e accettarono con coraggio, anche se quella era l’ultima flebile speranza. Sarebbe stato un tradimento cedere alla debolezza dell’individualità di fronte all’ideale di una collettività che è la sola a dare senso e significato alla vita di tutti noi.

E questo ideale carissimo Elvio tu hai saputo reinterpretarlo e comunicarlo tutta la tua vita, questo è stato sempre il tuo messaggio, un messaggio quasi inarrivabile per la maggior parte di noi. Il tuo stesso trascurare la malattia che ti ha strappato a noi, nasceva dal senso del dovere che ti fece partecipare seppur con il bastone, sul quale facevi dell’ironia, faticosamente alla commemorazione delle vittime innocenti in occasione dell’anniversario della promulgazione delle leggi razziali e ai tanti altri incontri di quest’ultimo autunno. Sono questi gli  esempi di come tu sia sempre stato un partigiano combattente che ha posto la sua individualità, la sua persona dopo, all’ultimo posto rispetto ai tuoi doveri di militanza politica antifascista.

Elvio, partigiano dei partigiani combattenti della lotta di Liberazione, eroe, proprio perché sapevi che non ci sono eroi, ma c’è solamente un unico eroe il popolo unito, che dobbiamo servire con abnegazione pena la perdita di significato della nostra stessa vita individuale.

Il ricordo del tuo esempio Elvio Ruffino possa rimanere sempre vivido e si possa noi essere sempre degni di poterne trarre ispirazione.

Viva il Partigiano Elvio Ruffino.

Viva la Resistenza.

Discorso Honsell alla Cerimonia commemorativa Cividale del Friuli

Prendo oggi la parola con l’intensa emozione, che suscitano luoghi come questi, dove sono state perpetrate sofferenza e dolore atroci, ma dove sono state offerte le più convinte testimonianze degli alti ideali di democrazia, giustizia e libertà sulle quali si fonda la nostra Repubblica.

Dobbiamo ricordare e onorare sempre la memoria dei Martiri della Libertà, di quei partigiani della  Brigata Garibaldi Natisone, barbaramente fucilati dai militari fascisti repubblichini del 5° Reggimento di Difesa Territoriale, all’alba del 18 dicembre 1944 all’ingresso del campo sportivo di Cividale del Friuli: Rodolfo Bastiani di anni 32 da Cormons, Stojan Terpin di anni 19 da Vipolže (Slovenia), Anton Marinić di anni 18 da Dobrovo (Slovenia), Franc Pahor di anni 28 di Opatje Selo (Slovenia), Giacomo Impalà di anni 20 carabiniere da Santa Lucia del Mela (ME) , Aldo Failutti di anni 21 da Saciletto, Lodovico Puntin di anni 19 da Aquileia, nome di Battaglia “Sam” e Severino Rocchetto di anni 19 da Palazzolo dello Stella.

Furono condannati a morte il 17 dicembre 1944 dal Tribunale tedesco per la Sicurezza Pubblica di Trieste, dopo un processo farsa. Per la medesima criminale sentenza, sempre il 18 dicembre, vennero fucilati a Gemona anche Salvatore Caputo di anni 19 da Gradisca, Aldo Del Mestre di anni 20 da Tarcento, Natale Marangon di anni 21 da Portodole, Sereno Maraldo di anni 20 da Meduno, Giovanni Morassi di anni 21 e Angelo Sedita di anni 20.

Questi giovani erano semplici manovali, braccianti, operai, contadini che seppero trasformarsi in eroi scegliendo di combattere per un mondo migliore che non avevano mai potuto conoscere, ma solo immaginare profeticamente. Non sappiamo nemmeno con esattezza tutti i loro nomi, corrotti sin nel manifesto che ne proclama la sentenza, perché in queste terre la guerra e la pulizia etnica anti-slava fu combattuta dai fascisti anche con l’italianizzazione forzata dei nomi di luogo e di persona, oltre alla sciatteria dei criminali che li fucilarono come nel riportare l’età del carabiniere partigiano Impalà che venne fucilato a vent’anni invece che a trenta. Nel manifesto si legge infatti Pachorini invece di Pahor, Antonio Marini invece di Anton Marinić, Bontin invece di Puntin, Vipulzano invece di Vipolže, Casteldobra invece di Dobrovo. Tristemente, non abbiamo informazioni esatte su dove furono fucilati alcuni di questi miseri giovani, né dove esattamente si trovano i resti di ciascuno di loro.

Tale fu la ferocia e l’atrocità dei carnefici che per giorni interi i loro corpi furono lasciati esposti per suscitare paura e orrore presso le popolazioni.

Queste scarne informazioni e la loro giovanissima età basterebbero già quale commento per chi, come noi qui riuniti, sente forte un debito di riconoscenza nei loro confronti. L’elenco stesso dei loro nomi è già poesia!

Ma, chiedendo loro perdono spiritualmente, per la pochezza di quanto potrò rievocare delle loro meravigliose storie interrotte e perdute in questi luoghi, svolgerò qualche ulteriore riflessione, perché l’ingiustizia della loro morte prematura non sia stata inutile e possa sempre ispirarci.

La vendetta compiuta su questi partigiani fu così esplicita perché doveva essere “pubblica dimostrazione” della sorte di chi non collaborava, di chi non si omologava alla logica aberrante del fascismo e del nazismo. Non fu ritenuta infatti sufficientemente esplicita, da quei criminali, la diabolica attività che per oltre tre anni, certamente dall’ottobre del 1942 ai primi di maggio del 1945, si svolse presso la caserma “Principe di Piemonte”, poi caserma “Francescatto” intitolata a quel povero alpino che perse la vita per le assurde brame imperialiste italiane in Grecia ed Albania. La caserma dove ci troviamo fu infatti luogo di detenzione brutale, di tortura feroce e di spietato omicidio soprattutto per tutti i venti mesi nei quali queste terre fecero parte del Terzo Reich, con la denominazione di Operationszone Adriatisches Küstenland. In un crescendo di rastrellamenti di partigiani e di civili, di violenze inaudite, questa caserma e la sponda del Natisone qui vicina furono teatro di fucilazioni che andarono avanti sino agli ultimi giorni della guerra. Si stima che oltre un centinaio furono le vittime, uomini e donne, tutte degne del ricordo più glorioso, molte di queste qui furono private oltre che della giovinezza anche del nome, massacrate a fucilate e alle volte “finite” addirittura con grossi massi di pietra. La prima vittima registrata fu il partigiano Antonio Rieppi di 24 anni il 2 ottobre del 1943, l’ultima Aloisio Zorzi di anni 22 anni il 30 aprile del 1945, altri nomi, pochissimi rispetto al numero dei corpi, sono Angelo Alpassi, Guerrino Bini, Emilio Cicuttini, Mario De Faccio, Lorenzo Della Pietra, Alcide Deslizzi, Provino Flocco, Domenico Gerini, Eugenio Gregoratti, Carlo Gregoris, Michele Islochi, Antonio Martinelli, Valentino Menig, Bruno Passon, Maria Peressin, Polzkin Guglielmo, Paracino Erasmo, Italico Tempo. E centinaia di altri uomini e donne uscirono invece da questa caserma per essere deportati nei campi di sterminio, diabolicamente chiamati campi di lavoro, dove le calorie di cibo somministrato erano calcolate esattissimamente perché morissero entro i mesi pianificati, per lasciare spazio ad altri.

Qui, come altrove in quegli anni, non vi fu rispetto dei più fondamentali diritti umani né la parvenza di processi. “I loro corpi vennero sepolti sommariamente lungo uno dei muri perimetrali della caserma o semplicemente fatti sparire.” Riporta una testimonianza.

Dopo la Liberazione furono esumati un grande numero di resti, spesso difficili da ricomporre, forse centocinque salme di Partigiani, soldati e civili fucilati, pochissimi dei quali identificati. Si trovarono inoltre una ventina di militari tedeschi, calmucchi, turcomanni e cosacchi probabilmente disertori, catturati nel corso di rastrellamenti. Appartenevano ai battaglioni che si erano uniti ai nazisti contro l’esercito sovietico, espressione di quei nazionalismi guerrieri ancora forti allora negli stati dell’Unione Sovietica, che furono stanziati in queste terre divenute Kosakenland in seguito all’operazione Ataman.

Non si conosce, neppure in modo approssimativo, però il numero complessivo delle vittime, come non lo si conosce per la Risiera di San Sabba e per altre stragi perpetrate nella nostra regione, come quelle presso la Caserma Piave a Palmanova.

A questi luoghi, naturalmente meravigliosi sfregiati però dalla ferocia umana, oggi ci si riferisce come “Fosse del Natisone” e come disse emblematicamente uno degli oratori che hanno svolto l’orazione negli anni scorsi, costituiscono dei non-luoghi della memoria, perché oggi non presentano quasi più le tracce di quel tremendo passato.

I materiali storici sono limitatissimi, perché tutti gli archivi, ancorché compilati con diabolica meticolosità dai nazisti, furono da loro distrutti prima di abbandonare la caserma. E forse volutamente i documenti rimasti e quelli prodotti successivamente non furono mai troppo espliciti, visto l’alto numero di collaborazionisti, e delatori vigliacchi che resero possibili questi eccidi con tanta regolarità. Non per questo però si devono accettare le ricostruzioni storiche delle motivazioni di crimini come quello che oggi commemoriamo, che definiti semplicisticamente come rappresaglie, tanto hanno condizionato nel dopoguerra la lettura della Lotta di Liberazione.

Parlare di rappresaglia nel descrivere queste stragi a mio avviso è fuorviante.

Le forze naziste che amministravano, anche la giustizia, nell’Adriatisches Küstenland erano guidate infatti da figure come Odilo Lotario Globočnik che venivano da operazioni nei territori della Polonia orientale e della Bielorussia, dove i nazisti avevano perpetrato sistematicamente e ferocemente la guerra contro i civili. Globočnik aveva addirittura ultimato la costruzione e poi diretto i campi di sterminio di Sobibor e Treblinka.

Eccidi come questi non furono infatti rappresaglie, ma esempi di sistematica “guerra contro i civili”.

La guerra contro i civili fu una modalità di controllo del territorio tipica del fascismo prima e del nazismo poi. Nasceva proprio da quella distopia totalitaristica fondata su disvalori razziali e il disprezzo delle diversità e dei diritti umani. Vanno ricordate, per condannarle, le operazioni di pulizia etnica anti-slava e di italianizzazione forzata condotte in queste terre sin dagli anni ‘20 con la chiusura di tutte le scuole di insegnamento slovene e le associazioni culturali slovene, e successivamente negli anni ’30 le azioni militari italiane in Etiopia e in Spagna. Ricordo come, in qualità di Sindaco di Udine, città che aderisce all’associazione Mayors for Peace (Sindaci per la Pace) e il cui presidente è il Sindaco di Hiroshima, un giorno incontrai il suo vicepresidente. Era uno spagnolo, sindaco della città catalana di Granollers. Gli chiesi cosa l’avesse spinto ad un ruolo così preminente nell’associazione. Mi disse che la sua città subì uno dei primi bombardamenti contro obiettivi puramente civili della storia, quello compiuto dall’aviazione fascista che il 31 maggio del 1938 distrusse la città provocando oltre 250 morti. Ma non dobbiamo dimenticare inoltre le operazioni criminali contro i civili che i fascisti perpetrarono in Slovenia durante la guerra, culminati con i rastrellamenti di Lubiana e le successive deportazioni di civili nel 1942.

La feroce barbarie di vicende come quelle che commemoriamo oggi, derivano proprio da questa modalità nazi-fascista di controllo del territorio: “la guerra contro i civili”. Ma come può nascere una simile aberrazione?

Questa modalità nasce proprio dalla visione ideologica del nazi-fascismo, che si nutre e si irrobustisce attraverso l’educazione all’odio, alla discriminazione, al razzismo e costruisce la sua forza nell’accecamento del popolo attraverso l’individuazione di capri espiatori dei quali provare paura, alimentando gli istinti più bassi, impedendo qualsiasi ricorso al ragionamento. Il fascismo si concreta attraverso la promozione della paura, del rancore e della cattiveria contro i potenziali diversi.

Il 18 settembre 1938, ottant’anni fa, il totalitarismo fascista promulgò a Trieste, le leggi razziali. È uno dei capitoli più vergognosi della storia d’Italia, perché la reazione contraria dell’opinione pubblica italiana fu debolissima. Quella promulgazione invece riempì di folla Piazza Unità d’Italia a Trieste, e alimentò l’entusiasmo delle masse, che poterono finalmente sfogare il proprio antisemitismo, dopo anni di sistematica educazione all’odio e di annebbiamento dei valori civili, con cui il populismo fascista le aveva cementate.

Oggi queste leggi ci paiono odiose, ma ci dimentichiamo che sono state la naturale conclusione di un percorso di promozione di sottocultura, di disvalori, di falsità propagandate con lo scopo di creare muri, distanze, differenze tra la massa del “noi” e la massa degli “altri”. “Altri” che devono essere cacciati o eliminati, perché non hanno il “diritto alla nostra terra”. L’“altro” se è diverso per come parla, per come pensa, per come si comporta, non ha valore, non conta, è il nemico da eliminare, per il solo fatto che esiste. Da questa visione discendono tutti i crimini contro i civili commessi dai nazifascisti, dalle discriminazioni e i confinamenti, fino ai rastrellamenti, alle deportazioni e le esecuzioni sommarie che oggi ricordiamo.

Per questi motivi, che derivano da riflessioni di cosiddetta storia delle idee, ritengo che parlare di “rappresaglie in una guerra civile” riferendosi a fatti come quelli che oggi ricordiamo, sia banalizzante e fuorviante.

Dobbiamo invece stigmatizzare e imparare a riconoscere i segnali deboli di questo tipo di dinamiche sociali e smontarle sul nascere, perché il fascismo è sempre in agguato, pronto a ritrovare fascino tra chi governa, ma prima ancora tra chi è governato. Piero Gobetti nel 1922, all’indomani della Marcia su Roma disse “Questa non è una rivoluzione, ma una rivelazione degli antichi mali d’Italia”.

E con preoccupazione stiamo vivendo oggi una deriva morale a livello planetario, che rende possibile il risorgere di questi modelli di pensiero, ma che dobbiamo scongiurare.

Lo scorso 10 dicembre sono stati festeggiati i 70 anni della promulgazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, che suggella valori quali le pari opportunità, le libertà, l’universalità dei servizi: non quindi diritti individuali se non nella misura nei quali possono, anzi devono, essere universali. Oggi assistiamo invece spesso a prepotenze, spacciate come diritti, che nascondono interessi particolari. Questi non sono diritti universali bensì proprio il loro opposto, sono bullismi individuali. Anche i fascisti e i mafiosi hanno una loro nozione di legalità, spesso imposta con ancora più determinazione di quelle negli stati democratici, ma è ingiusta perché non è universale. I diritti universali sono giusti proprio perché sono per tutti e di tutti, senza discriminazione.

Questa nostra “grande epoca” come beffardamente Karl Kraus chiamava già la sua un secolo fa, che potrebbe essere piena di opportunità, è invece devastata da crescenti disparità, che alla fine finiscono per penalizzare gli stessi privilegiati, oltre a schiacciare ingiustamente gli svantaggiati. Ma la risposta non può essere il populismo di una massa accecata e mistificata, che ha rinunciato al pensiero. L’equità è il primo valore antifascista, il benessere “o è per tutti oppure non è”. La diversità è un valore, anzi è forse il solo valore che permette di comprendere noi stessi, per confronto, e di crescere nella consapevolezza dello sterminato significato della parola “umanità”, immedesimandoci nello sguardo degli innumerevoli “altri”.

La risposta fascista è una non-risposta. Non è utopia, bensì la distopia dell’omologazione e della conseguente sopraffazione ed eliminazione dei diversi, dei più deboli e delle minoranze, fondata, anzi, sulla criminalizzazione dei diversi, sulla loro trasformazione in capri espiatori di tutti i nostri mali.

Per questi motivi, con viva preoccupazione assisto negli ultimi mesi, anche qui in Italia e in Regione al crescere di un pensiero che definirei di esclusione dell’altro invece che di un più solidale pensiero inclusivo. Il tema dei migranti e dei richiedenti asilo, va affrontato con una prospettiva completamente diversa da quella sin qui promossa da tante parti. Come Sindaco di Udine ogni 25 aprile invitavo i cittadini in Piazza Libertà a fare di tutto il pianeta la nostra patria, di fronte al dramma dei mutamenti climatici e del riscaldamento globale dovuto al consumo indiscriminato di risorse ambientali e fossili, che tante miserie e sofferenze provoca. Come sonnambuli invece abbiamo ormai superato il punto del non-ritorno, ma non vogliamo accettarne le conseguenze.

Oggi, purtroppo, in questa Regione tutti i cittadini sono dichiarati uguali, purché abbiano “più di 5 anni di residenza”. Misure come queste non placano il rancore, ma generano guerre tra poveri. I mutamenti demografici non devono trasformare l’Europa e l’Italia in una fortezza. Così come milioni di Italiani, come decine di milioni di europei, un secolo fa emigrarono dall’Europa, così oggi dobbiamo guardare a chi viene dall’Asia centrale, dal Vicino Oriente, dall’Africa come migranti provocati soprattutto dalle devastazioni ambientali figlie di un colonialismo che non si può cancellare e dai processi economici globali che ne sono gli eredi. Queste sono dinamiche delle quali siamo tutti corresponsabili per i nostri stili di vita. I migranti vanno visti invece come una grande opportunità di emancipazione e progresso per il nostro paese, se si promuove una politica di inclusione culturale. È notizia di qualche mese fa che quest’anno le ragazzine tredicenni in Italia sono tante quante le donne di 83 e che gli italiani che hanno meno di 30 anni sono tanti quanti quelli che ne hanno più di 60. Abbiamo bisogno degli immigrati! Chi viene nel nostro paese a cercare lavoro non va solamente sfruttato come badanti nelle case di riposo, come braccianti nei campi di pomodori, come operai nei cantieri va invece integrato con le sue famiglie, perché vuole contribuire alla crescita del nostro paese, che poi è sarà anche il suo.

Purtroppo, sia a livello regionale che a livello nazionale vedo invece prevalere lo spirito del muro che discrimina rispetto ai ponti del dialogo. Nella nostra regione la decisione che ha portato ad aumentare a 5 anni, rispetto ai precedenti 2, la possibilità di accedere a misure di sostegno sociale da parte dei nostri cittadini è un messaggio di intolleranza, solidificato in legge, tremendo. È un messaggio di chiusura e di rifiuto. La rapidità con la quale l’ente Regione ha voluto uscire dalle reti antidiscriminazione ed anti-omofobia è un altro messaggio di rifiuto dei diversi. Sono decisioni che vanno contro i diritti universali dell’uomo, così come contro l’Articolo 3 della Costituzione Italiana, che garantisce a tutti la rimozione degli ostacoli che permettono la piena realizzazione della propria personalità.

Non posso non discutere al riguardo anche il senso dell’ultimo decreto sicurezza approvato dal governo. Di un governo che ha trasformato le criticità dell’immigrazione nel suo più potente strumento di propaganda, promuovendo la paura e l’ostilità. Con questo decreto il governo ha eliminato gli strumenti di accoglienza inclusiva per privilegiare l’accoglienza concentrazionaria, rischiando, non so quanto consapevolmente, di esasperare le tensioni e la conflittualità nella gestione di tali dinamiche. Creerà molti nuovi irregolari che saranno lavoratori molto più facili da sfruttare, perché invisibili e senza alcun diritto. Questo decreto nega infatti ad alcune categorie di cittadini i principi di uguaglianza e solidarietà che sono alla base della nostra Costituzione sopprimendo il diritto all’iscrizione anagrafica, ed escludendoli dal servizio sanitario nazionale.

Questo decreto è repressivo di fatto anche nei confronti degli italiani, rendendo reato tante strategie di non violenza attiva, e di assembramento, imponendo i cosiddetti “daspo” e gli sgomberi indiscriminati.

Preoccupano le recenti manifestazioni di violenza fascista, come l’asporto delle pietre d’inciampo a Roma, e gli assalti di Forza Nuova alle sedi dell’ANPI, così come i tanti sdoganamenti politici di una destra che si muove sul filo del rasoio del divieto Costituzionale di apologia di fascismo. Sono figli della facilità con la quale anche ai massimi livelli politici ormai si predichi impuniti l’odio, dopo aver predicato la paura e il rancore. La cattiveria e la politica che la sfrutta, caratterizzano oggi il nostro paese, rileva il CENSIS. Esemplari per ferocia sono state nei mesi scorsi certe scelte di governo che hanno obbligato le navi che avevano raccolto naufraghi nel Mediterraneo a lunghe peregrinazioni nei nostri porti o nelle nostre acque nell’inutile tentativo di poterli sbarcare.

Se ci si abitua all’indifferenza di fronte alla barbarie, alla fine non ci si può non considerare dei complici.

Il significato più profondo che oggi assumono luoghi come le Fosse del Natisone è quello di simbolo della superiorità del pensiero resistenziale dei partigiani rispetto a quello fascista. Falsi storici quali la fossa di Premariacco fatti circolare per bilanciare l’orrore delle vere Fosse qui presso il Natisone, non devono distoglierci, vanno semplicemente condannati.

Come sindaco di Udine in passato, e oggi nel mio ruolo politico attuale, l’antifascismo è per me la stella polare, che mi guida e ha guidato in situazioni anche difficili nella difesa dei diritti umani come sono sanciti dalla nostra Costituzione nata dalla Resistenza. Come nella vicenda di Eluana Englaro era in gioco l’Articolo 32 della Costituzione che sancisce il diritto di rifiutare le cure, quando queste non rispettano la persona umana, così l’Articolo 3 ci ha guidato sia nel dare pari dignità alle unioni tra cittadini dello stesso sesso e alle loro famiglie sia nel non discriminare tra cittadini sulla base degli anni di residenza. Infine, l’Articolo 10 deve essere posto alla base dell’accoglienza dei richiedenti asilo.

Ringrazio L’ANPI per l’incessante attività di diffusione culturale dei più alti valori di solidarietà e di democrazia. Solamente questa cultura antifascista può metterci al riparo dello (… e qui voglio usare una parola trovata nelle carte, che ho studiato per preparare la descrizione dei fatti di oggi, su un santino funebre composto dai familiari del partigiano  Guerrino Bini di anni 24 di Buttrio, fucilato sulle sponde del Natisone il 10 aprile 1945, perché mi sembra carica di senso nella sua semplicità, ma anche nella sua fermezza …) solamente, quindi, la cultura antifascista può metterci al riparo da quello sgoverno che speriamo non debba mai più guidare la nostra Patria.

Ringrazio ancora una volta gli otto partigiani e tutti gli altri centocinque, i cui corpi senza nomi giacciono così vicino a noi, ricordando le parole di Luciano Pradolin “Goffredo” di anni 23 da Tramonti di Sopra, fucilato nei pressi del cimitero di Udine il 10 febbraio 1945. Queste parole mi hanno fatto comprendere molto della storia del nostro paese. Così si rivolge alla sorella la notte prima della fucilazione: “Tutte le speranze sono svanite. Come vedi questa è la sorte di quelli che hanno un’idea. Ma è proprio fatale che tutti coloro che hanno un ideale debbano fare questa fine?” E si dà una risposta citando un verso della poesia di Giacomo Leopardi Nelle nozze della Sorella Paolina: “O miseri o codardi figlioli avrai, miseri eleggi! Immenso tra fortuna e valor dissidio pose il corrotto costume!”.

La loro morte non sarà stata inutile solamente se noi, come cittadini di questa Repubblica democratica, sapremo difendere gli ideali di solidarietà, di libertà di eguaglianza e di dialogo per cui i partigiani hanno dato la vita. Solamente se sapremo colmare il dissidio tra “fortuna” e “valor” contrastando il “corrotto costume”.

Viva la Resistenza!

Viva la Repubblica italiana nata da essa!

Vivano immortali gli 8 fucilati alle prime luci dell’alba del 18 dicembre 1944 presso il campo sportivo di Cividale del Friuli!